Intervista a Mons. Giovanni D'Ercole

Prove generali a Osimo in vista dell’apertura del Festival nazionale sul giornalismo d’inchiesta. Sala gremitissima nel Santuario di San Giuseppe da Copertino per l’incontro con il vescovo-giornalista, mons. Giovanni D’Ercole, che ha presentato il suo ultimo libro “Nulla andrà perduto: il mio grido di speranza per l’Italia”. Hanno condotto la serata due giovani giornaliste appena uscite dalla Scuola di Urbino, Sara Bertuccioli e Stefania Bernardini. Mons. D’Ercole è attualmente vescovo ausiliare della Dicesi dell’Aquila, ma è conosciuto al grande pubblico per la sua attività sul piccolo schermo come conduttore della trasmissione televisiva “Sulla via di Damasco”, in onda il sabato mattina su Rai2. 
Mons D’Ercole è stato, solo pochi mesi fa, al centro di un’inchiesta giudiziaria che è finita poi con l’archiviazione. Il vescovo è stato accusato di false informazioni al Pubblico Ministero (Pm) e di divulgazione di segreti su un procedimento penale nell’inchiesta sulla tentata truffa allo Stato sui cosiddetti “Fondi Giovanardi”. Mons. D’Ercole, nonostante l’archiviazione, ha chiesto di essere giudicato e nel giugno scorso è stato assolto perché il fatto non costituisce reato. A Osimo, rispondendo a una domanda di Stefania Bernardini, ha parlato con amarezza anche di quella dolorosa vicenda e del “tritacarne mediatico” che spesso non rispetta la dignità delle persone e il principio della “presunzione di innocenza. Prima della conferenza lo abbiamo intervistato.



Come e quando è nata in lei la passione per il giornalismo?
“Già da ragazzo mi piaceva molto fare i temi. Non ero molto bravo in matematica, fisica e chimica; andavo invece molto bene in filosofia e soprattutto in italiano. La mia passione erano le poesie, e soprattutto lo scrivere. Con il trascorrere del tempo il giornalismo ha alimentato in me la volontà di voler essere portatore di alcune idee di giustizia. In Italia correvano gli anni difficili del 68-70, un’epoca di grande trasformazione. Essere giornalista significava allora essere portavoce di tanti che non avevano voce. Questo periodo ha maturato in me una predisposizione verso un giornalismo al servizio della comunità e di una causa, quella del bene”.

Gli anni Sessanta, quando ha cominciato a collaborare con il Sir (Servizio d'informazione religiosa) e l’Avvenire, sono stati anni molto difficili. Che ricordo ha di quel periodo?
“Era un momento molto difficile. Noi eravamo ragazzi pieni di grinta, voglia di lottare e di mettersi i gioco. La cosa frustrante è stato vedere che i giovani sono stati strumentalizzati. Molti di noi avevano una passione che si è dissolta nello scontro ideologico. Molti hanno perso la spinta propulsiva dell’entusiasmo. Personalmente ho molto opportunità, ho avuto grandi incontri, ho conosciuto uomini illustri, di chiesa e di cultura. Ricordo bene Pasolini con il quale ho avuto la possibilità anche di collaborare alla radio. Non dimentichiamo che era l’epoca del dopo Concilio e quindi con un grande fermento ecclesiale”.

Cosa pensa della polemica di Adriano Celentano dal palco di San Remo quando ha invocato la chiusura di giornali come Avvenire e Famiglia Cristiana?
“Ho pensato che con il suo stile “molleggiato” volesse essere semplicemente provocatorio. Io penso che il primo a essere convinto che non si debbano chiudere questi giornali sia proprio lui”.

Quindi possiamo dire che è stata più una provocazione che un attacco alla Chiesa?
“Viviamo in un’epoca di comunicazione globale dove i messaggi sono interpretati soggettivamente. Io mi auguro che il suo annuncio non sia stato capito perché non credo che un personaggio come Celentano sia veramente convinto di diffondere un messaggio del genere”.

Nel suo libro “Nulla andrà perduto” emerge la vicinanza della Chiesa ai terremotati dell’Aquila. Quanto secondo lei questo avvenimento ha inciso sulla fede cristiana di quella popolazione?
“Sono diventato vescovo della chiesa Aquilana, appena dopo il terremoto e ho colto immediatamente nella gente un grande senso di smarrimento. Molto spesso, le grandi prove ti rafforzano o ti fanno morire. In alcuni sicuramente ha accresciuto la fede. Mi viene in mente il caso un avvocato che ha perso la moglie e le figlie. Ora, pur nella solitudine, rappresenta una grande testimonianza di amore a Dio. E’ stato in grado di cogliere nell’abbandono il senso globale della sua vita. Il terremoto non ha distrutto la sua fede, ma l’ha rafforzata. Ci sono persone, soprattutto ragazzi, che mi chiedono perché Dio ha permesso tutto questo e quale possa essere stata la loro colpa. Questi interrogativi sul senso della morte, su dolore, sul male e su quello che rappresenta la vita è sempre un grande enigma”.

Le macerie dell’Aquila – e più recentemente quelle dell’Emilia – sono viste come la metafora di un’Italia a pezzi, da ricostruire. Qual è la ricetta della Chiesa per uscire da questa crisi?
“In cinese – o cito nel mio libro – la parola crisi si scrive con due ideogrammi. Il primo significa disgrazia, il secondo opportunità. Qualsiasi crisi e qualsiasi situazione dirompente, portano in se la grande possibilità di una ripresa e quindi una grande sfida. Più è difficile e più è forte il coraggio della rinascita. Il terremoto è pertanto una metafora della storia e della vita italiana. Ripartendo dalle macerie possiamo affermare che si può ricostruire tutto con un grande senso di umiltà, solidarietà fraterna e soprattutto ponendo al centro Gesù Cristo perché solo Dio non cade mai ed è lui la nostra forza”.

Qual'è il messaggio spirituale più importante che ci ha lasciato il Cardinal Martini? Ha un ricordo personale?
“Ho conosciuto il Cardinal Martini da studente, da giovane prete. All’epoca lui era professore e poi rettore all’Università di Roma. Quello che mi colpiva in lui era la sua frequenza nelle mense dei poveri. Quando diventò arcivescovo di Milano è stata per me una grande emozione leggere i suoi libri. Tutti i sacerdoti della mia età e anche i più giovani hanno meditato sulle sue riflessioni. Ha segnato molto la nostra vita. La sua morte è stato un evento mediatico. Viviamo in un periodo dove i media tentano di sfruttare ogni avvenimento. Si è persa l’essenzialità, il vero messaggio profondo. Attorno alla sua morte sono nate polemiche anche sull’eutanasia e sul fine vita. E’ stato un uomo che si è lasciato guidare dalla parola di Dio diventando una lampada per i fratelli che gli camminavano accanto. Se ci lasciamo guidare, nutrire e “infiammare” dalla parola di Dio diventiamo anche noi fiaccole che illuminano il sentiero di chi ci sta accanto”.

Che immagine ha avuto dalla nostra città (Osimo)?
“Non ero mai stato a Osimo. In passato padre Berrettoni mi aveva rivolto diversi inviti. Per il centenario del Santuario, anni fa, venne l’equipe della mia trasmissione di Rai Due (Sulla via di Damasco). Ho sempre il desiderio di visitare la tomba di San Giuseppe da Copertino. La sua storia ricalca in parte quella di San Giovanni Maria Vianney. Sono rimasto colpito anche dal suo cammino di avvio al sacerdozio, per le sofferenze che ha patito, per le incomprensioni che ha avuto e soprattutto per la sua semplicità e per il suo amore per la Madonna. Sono venuto molto volentieri. Per me è stato un piccolo pellegrinaggio per incontrare San Giuseppe da Copertino e un buon motivo per conoscere nuovi amici come voi”.

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